etica-mente

View Original

L’anelito di una nuova normalità

Sono trascorsi poco più di tre mesi da quando, su questo Blog, mi interrogavo sui possibili cambiamenti post-Covid 19. Oggi, quando ancora il coronavirus impensierisce il mondo intero, non si contano le voci che si interrogano, che predicono o, ancor più, che invocano un cambiamento di paradigma della vita sociale, in nome di ciò che questo periodo ha mostrato ai nostri occhi.

La “nuova normalità” è motivo di indagine e speculazione quotidiana da parte del più ampio spettro di prospettive: da filosofi ad economisti, da sportivi a governanti, tutti cercano di prospettare il futuro sotto una luce nuova, se possibile migliore e più armoniosa del passato ma, a mio parere, più che vere proposizioni affermative – magari sotto forma di domande retoriche -, la maggioranza di scritti, interviste e ricerche sottende solamente un auspicio o un’esortazione a che ritorni lo status precedente alla pandemia. La ragione di questa mia impressione risiede nella semplice constatazione che ancora non ho ascoltato l’enunciazione di un pensiero, di un “perché” profondo secondo il quale il possibile protrarsi di certi comportamenti o la ferma attesa di taluni effetti debbano radicarsi a motivo di un miglioramento di vita; e ancora, mi sfugge quale sia la critica ragionata del passato in conseguenza della quale si possa giustificare una sovversione, se necessario, dei principi fondanti il vivere quotidiano degli ultimi 40 anni.

In altre parole, mi pare vi sia larga condivisione sul merito di giungere ad un cambiamento, ma latiti abbondantemente il coraggio di mettere in discussione il profuso senso di “deresponsabilizzazione” che ci ha accompagnato sino ad oggi e che per molti è stato il vero e comodo viatico per un quotidiano tranquillo, magari un po’ appiattito sulla mediocrità, ma nel quale più o meno tutti facevano sera. Mi pare, infatti, che l’inseguimento di un new normal nasca proprio perché la pandemia ha minato, almeno nella percezione dei più, la confidenza che questo stato narcotico del pensiero, in cui non è richiesto esporsi ed assumersi singolarmente la responsabilità delle proprie azioni, possa perdurare.

In realtà, è come se si dicesse: “come facciamo a far sì che nulla cambi rispetto al gennaio 2020?”

Smart working, e-commerce, distanziamento sociale e ricerche di residenze con giardino sono circostanze incontestabili che modificheranno le nostre abitudini sociali, che provocheranno mutamenti nell’economia e forse anche nella distribuzione demografica, ma di per sé rimangono tecnicalità di vita, incapaci di dirottare il nostro cammino da una destinazione ad un’altra, da uno scopo ad uno nuovo. Il punto è se ci interessa chiedersi se occorre cambiare strategia, non strumento o tatticismo. La “normalità” che segna la vera qualità del vivere nostro e delle generazioni a venire guarda alla ragione del proprio agire di tutti i giorni e in tutti gli ambiti, e al fine che con esso si intende perseguire. Il coronavirus, a mio parere, ci ha sbattuto violentemente in faccia i temi della sanità, degli anziani, della scuola, del lavoro e delle disuguaglianze sociali non tanto, o non solo, in termini organizzativi, ma soprattutto rispetto alla relazione tra ciascuno di noi e questi spazi del vivere comune e la domanda più importante è se la relazione che abbiamo avuto sino ad ora sia “normale”, nel significato di appropriata, giusta, portatrice di un miglioramento per sé e per gli altri.

Mi pare evidente che la mia risposta sia negativa.

No, abbiamo necessità di far sì che diventi “normale” un atteggiamento e un agire diverso nel quale l’Altro stia al centro e non sia, nel più ottimista dei casi, un convitato di pietra; affinché diventi “normale”, nulla c’entra il finanziamento di enti filantropici, occorre che l’Altro si insinui strategicamente nel DNA della vita civile, quindi di ogni suo membro, affinché ciascuno ritrovi maggiori opportunità per conquistare i propri obiettivi accettando, tuttavia, le responsabilità del proprio operato.

Pochi giorni fa, il Corriere della Sera ha pubblicato un Corsivo di Andrea Ichino, noto economista, dal titolo Stato e Mercato. L’intervento editoriale tratta della ripartizione di ruolo tra Stato e Mercato nella gestione delle scuola e, cercando un punto di equilibrio tra assistenzialismo statale e liberismo, nell’arco di due paragrafi ripropone la tesi elaborata con Guido Tabellini, altro economista di indiscusso livello, per la quale “il sistema migliore sia quello nel quale lo Stato si limita a finanziare (per assicurare qualità e uguaglianza di opportunità), a regolare (per operare all’interno dei binari preferiti dalla collettività), ma non a gestire in prima persona. È preferibile dare piena autonomia di gestione alle singole scuole”. I due passaggi logici che Ichino premette a tale conclusione sono, l’uno, che “Ha poco senso sostenere che lo Stato opera meglio del mercato. Dipende da chi governa e dalle sue capacità” e, l’altro, che “la scuola è uno dei motori della crescita di quel prodotto interno lordo che sta al denominatore del rapporto debito/PIL”.

Richiamo questo articolo del Corriere perché mi aiuta a contestualizzare il tema della “normalità” con un esempio concreto.

Partiamo dalle premesse: la scuola, e con essa la cultura, quale uno dei motori dell’economia è il primo aspetto che ad oggi non è assolutamente normale e lasciare intendere, come avviene nell’articolo, che sia un’ovvietà è un errore grossolano.

Occorre una decisione strategica forte e determinata affinché l’attuale indifferenza del sistema economico verso quello scolastico e culturale si sovverta completamente in una nuova normalità.

E ove accadesse, chiunque ostacolasse il processo virtuoso dovrebbe risponderne. Ma chi si deve far carico di questa decisione? A dir di Ichino, affidarsi allo Stato è pericoloso in quanto il suo operato “dipende da chi governa e dalle sue capacità”: ma, scusate, lo stesso principio non è forse applicabile anche a coloro cui fosse assegnata la “piena autonomia di gestione” delle singole scuole? Nell’ambito di una “nuova normalità” si dovrebbe avere il coraggio e il senso di responsabilità di determinare parametri di merito, da cui il giudizio di capacità, in funzione di obiettivi per il singolo e al contempo per la collettività – e non di mere statistiche di produttività - da applicare tanto allo Stato quanto al mercato. D’altra parte, chi e per quali motivi oggi ha titolo per riprendere quei docenti che durante il periodo di lockdown si “son fatti di nebbia” tralasciando l’impegno verso gli studenti; e, al contrario, perché non vi è modo di premiare quegli insegnanti che nel medesimo periodo hanno regalato una prestazione maiuscola, superiore a quanto loro richiesto, per amore della loro funzione?

In una nuova normalità, questo dovrebbe essere possibile ma, per arrivarci, è necessario che “autentici pensieri” si contrappongano nell’agone politico, a costo di non incontrare il consenso elettorale in cabina. Questi sono i cambiamenti cui ambire così come ogni genitore può rendersi parte diligente e responsabile nei plessi scolastici frequentati dai propri figli e senza i quali nulla muterà.

Più in generale, sollecitato anche ma non solo dal Corsivo di Ichino, il mio auspicio di un new normal passa anzitutto da una questione di metodo: ogni suggerimento in merito alla scuola dovrebbe muovere necessariamente da una strategia sull’istituzione scolastica in sé: che fine ha, in cosa si sostanzia e quali sono le priorità in termini sia di soggetti coinvolti sia di attività da svolgere. Ad oggi, invece, si parla di scuola senza “pronunciarsi” sulla vera impostazione che a partire dalla riforma Berlinguer in avanti connota il nostro impianto formativo e neppure sulla sua strumentalità rispetto ad altri ambiti della vita sociale poiché metterebbe in discussione l’adeguatezza delle competenze ministeriali preposte, degli spazi fisici e della preparazione dei docenti; non a caso, si evita sempre di rilevare, per non doversi confrontare sul punto, che l’oggettiva priorità è data al corpo docente, in quanto compagine elettorale, e non agli studenti, come per me dovrebbe essere e per cui cerco di battermi.

Se veramente si vuole cambiare la normalità, credo davvero che il primo passaggio sia riconoscere l’errore enorme di aver messo da parte la Persona per molti decenni, e il secondo vorrebbe poi recuperarla come parametro primario delle relazioni e del proprio miglioramento individuale all’interno di una collettività, che esiste a prescindere.

Simone Rondelli

articolo.pdf

abstract.pdf