Personaggi come Claude Bristol, David Schwartz, Ben Carson, Steve Jobs, e Michael Port, per citarne solo alcuni, hanno dissertato a lungo sull’importanza di Pensare in Grande, To Think Big.
Tutti questi personaggi portano l’attenzione sugli obiettivi da darsi, sulle ambizioni da perseguire nonché sulla sicurezza in se stessi, la determinazione e il carisma da acquisire per giungere alla meta desiderata.
Presentato come miglior percorso per raggiungere un obiettivo, pensare e, permettetemi di aggiungere, agire in grande può certamente portare a grandi soddisfazioni. Tuttavia, a mio avviso, esistono tre interrogativi importanti: l’uno in merito all’ambito entro cui determinare l’obiettivo, il secondo riguarda quali criteri seguire per fissare la meta, e il terzo è relativo allo spazio entro cui calcolare il “grande”: verticale dell’IO od orizzontale del NOI?
Anzitutto, prendiamo in esame l’ambito di vita in cui è opportuno Pensare in Grande. Checché se ne dica, oggi la spinta motivazionale e di ambizione proposta dagli attori della società civile è circoscritta nella quasi totalità dei casi al lavoro, alla carriera professionale, oppure, quando anche si ampli ad altri contesti di vita, ciò avviene tendenzialmente a “compartimenti stagni”. Mi chiedo, invece, se la dimensione nella quale cogliere l’invito non debba essere quella totalitaria della singola persona: ciò significa riferirsi non solo ad uno ma alla combinazione di tutti gli ambienti (affetti, lavoro, sport, hobbies) entro cui l’individuo decide di ripartire il proprio tempo. A dire il vero, pensare ed agire in grande nella dimensione globale della persona rischia di suonare come un ossimoro perché rende pressoché impossibile “puntare al massimo simultaneamente” in ogni ambito di vita in modo indistinto: il “massimo” rispetto alla famiglia confligge necessariamente, almeno ad un certo punto della vita, con il “massimo” nel lavoro o nello sport o in altri interessi importanti.
Affinché si possa superare la contraddizione in termini, occorre portare anche i criteri di determinazione degli obiettivi su scala totalitaria. Richiamare la totalità dell’individuo implica, dunque, che ogni persona deve, anzitutto, assumersi la responsabilità di darsi degli obiettivi propri e, a seguire, deciderne il bilanciamento secondo una scala di priorità scaturenti da propri valori e nei diversi intervalli dell’arco di vita. A questo punto, il “massimo” cui puntare è composto, secondo i “pesi” attribuiti ai vari ambiti di vita, ma unico (e non più la sommatoria di “massimi” tra essi confliggenti) in ogni dato momento temporale. Questa via è più impegnativa e faticosa, da un lato, ma – a mio avviso – più gratificante perché permette di essere sempre protagonisti della propria vita: vivi la tua vita e non quella che altri decidono per te!
L’annoso dilemma tra quanto e quale tempo dedicare alla famiglia e al lavoro quando ci si trova in crescita professionale ma si è ancora patrimonialmente deboli; il bilanciamento tra l’appagamento della sfera strettamente individuale e quella di membro familiare (tema spesso evocato per le donne nel cruccio tra lavoro e ruolo di mamma); e ancora, quanto tempo dedicare allo sport per piacere o per mantenimento fisico a scapito di lavoro e famiglia? Queste sono poche ma frequenti dicotomie che esemplificano la maggior difficoltà di pensare in grande in una dimensione globale della persona ma dimostrano anche chiaramente come lo scopo ultimo di essere felici, o quantomeno soddisfatti, richieda una visione molto più ampia di un solo comparto di vita alla volta.
Veniamo ora al punto più delicato: cosa vuol dire concretamente pensare e agire in grande?
Nel linguaggio corrente, il significato di “Pensare in Grande” è prevalentemente ricondotto al concetto di avere idee e piani ambiziosi su ampia scala. La definizione sintetica più recente del Cambridge Dictionary, a mio parere adattata ad una realtà in cui l’economia e il danaro hanno il primato assoluto, recita “To have plans to be very successful or powerful”.
Sebbene sia molto difficile riassumere in poche righe un’ampia letteratura sul tema, spero di non far torto a nessuno nel prospettare, secondo i canoni oggi più diffusamente accettati, il comportamento concreto di chi pensa in grande attraverso le seguenti 8 direttrici:
Chi pensa in grande
(i) E’ positivo e senza timore
(ii) Immagina senza limiti
(iii) Fa grandi domande
(iv) E’ creativo
(v) Pianifica a lungo termine e non devia dal piano
(vi) Ispira le persone che lo circondano
(vii) Agisce e compie un passo alla volta
(viii) Soprattutto, crede in se stesso
Se ci si attiene alla formulazione astratta delle 8 indicazioni di comportamento, penso sia oggettivamente difficile muovere critiche radicali. La struttura portante che le unisce è, nella teoria, ampiamente condivisibile.
L’aspetto, invece, che meno mi convince è l’attuazione reale di queste raccomandazioni, la coerenza e sostenibilità di comportamento quando poi “si va in scena”. In particolare, trovo che l’esortazione di cui stiamo parlando venga continuamente proposta sull’assunto che, in primo luogo, l’unico protagonista della commedia (la vita) sia l’IO e, in secondo, il teatro in cui recitarla sia sempre e solo il medesimo; cosicché all’Altro da sé è riservato unicamente il ruolo di comparsa o pubblico (meglio se pagante) cui non sia concesso nulla se non applaudire. La mia perplessità maggiore nasce dal fatto che l’iniezione di fiducia e la legittima ambizione a inseguire i più elevati desideri così contestualizzati rischiano alternativamente di sfociare in un onirico senso di onnipotenza ovvero di infrangersi alle prime resistenze del mondo esterno ovvero (circostanza di cui sono stato tante volte testimone) di tramutarsi nell’apologia del “fine giustifica i mezzi”, oggi tradotto nel diffusissimo “whatever it takes”, che inesorabilmente prima o poi si trasforma in conflitti (sociali, personali, familiari, certamente economici). Tutte circostanze che rendono poco sostenibile il Grande Pensiero nel lungo periodo in cui è concepito.
La mia esperienza passata mi induce a chiedermi, piuttosto, se pensare ed agire in grande, oltre a dover esser calato nella totalità degli ambiti di vita, non sia più efficace quando viene proiettato nella dimensione collettiva del contesto entro cui la persona vive.
Includere tutti contempla anche la richiesta a sé o ad altri di rinunciare a qualcosa (sacrificarsi) in un certo momento per goder di maggior beneficio nel tempo a venire; l’importante è non lasciare deliberatamente nessuno fuori da quella equazione che ciascuno rimane libero di risolvere come responsabilmente meglio ritiene.
In sintesi, pur con ancora molte domande aperte, mi sento più vicino ad una prospettiva in cui il vero big thinker trasporta la sceneggiatura descritta in precedenza in uno spazio più ampio in cui l’Altro da sé è sempre compresente sul palco. Così facendo, le 8 direttrici astratte per pensare e agire in grande si tradurrebbero in strumenti concreti per:
Comprendere, in fase di inquadramento di un problema, anche le esigenze di tutti coloro che mi circondano nei diversi ambiti di vita e il rapporto che esse hanno con i miei desiderata
Tratteggiare idee che contemplino il soddisfacimento delle esigenze altrui insieme alle mie già nella fotografia statica (l’idea appunto) della soluzione possibile al problema
Trasformare le idee in attività ordinate (progetti) all’interno delle quali si pianifichi il raggiungimento dei desideri di chi mi circonda insieme ai miei e rispetto al quale gli altri avvertano l’autenticità del mio impegno in quella direzione.
La misura del “grande” si colloca così prima in un piano orizzontale del NOI; con tale consapevolezza, allora, si può guardare al piano verticale, ossia focalizzarsi sui propri obiettivi con un grado di confidenza molto più elevato in quanto essi incorporano già la relazione con chi mi accompagnerà nel cammino. La proiezione è più simile ad una piramide che non ad un obelisco: forse si tocca un’altezza inferiore ma la struttura è più solida e resistente nel tempo !
Simone Rondelli